Un muro di insulti da scalare o da abbattere. Le ragazze dell’italrugby in un recente video hanno mostrato al mondo cosa sono le bacheche e la sezione commenti delle pagine social della squadra. Un piccolo esempio di resistenza all’hate speech più becero. Ecco, quando leggiamo un post o un commento pregno di intolleranza gratuita rivolta contro le minoranze, beh, siamo di fronte ad un caso di hate speech.
Un male tipico del nostro tempo, che trova terreno fertile nell’anonimato dei social network, protetto dalla distanza incolmabile tra gli interlocutori nascosti dietro gli schermi dei telefoni cellulari.
Lo sport non fa eccezione. Denigrazione e diffamazione fomentano futili discussioni calcistiche e non solo, minacce ed insulti spaventano giovani atleti colpevoli solo di essere particolarmente capaci nel proprio mestiere. La gelosia è un caratteristica chiave dell’hate speech, ma non è l’unico sentimento coinvolto. L’ira sembra non trovare ostacoli. Per questo non vengono poi perdonati errori, cambi di maglia o outing di alcun tipo.
Come parziale rimedio a queste ondate di odio gratuito, molte realtà sportive vengono allenate, oltre che sul piano agonistico, anche sul piano mentale. Rendere gli atleti immuni, non alle lecite critiche limitate al giudizio sulla prestazione, bensì alle manifestazioni di odio, sta diventando uno dei primi obiettivi degli allenatori di qualsiasi sport.
Missione per l’atleta: ergersi oltre. Oltre il sopruso, oltre l’indignazione. Ma è giusto così? Ovviamente no.
In un censimento realizzato dall’equipe multidisciplinare del Centro di ricerca avanzata Coder dell’Università di Torino balzano agli occhi numeri impressionanti: un milione di commenti offensivi e volgari hanno riempito la sezione commenti delle principali testate giornalistiche attive sui social. La ricerca 2024, rinominata “Barometro dell’Odio nello Sport”, analizza i casi, valuta i livelli di odio prendendo in esame frasi discriminatorie rivolte a gruppi etnici e religiosi, disabili e altre categorie e cerca soluzioni e strumenti per un contrasto serio e preventivo evitando di cadere nelle braccia della censura.
Non solo ricerche, ma anche dimostrazioni. Lo scorso Aprile in 14 città italiane un flash mob collettivo ha animato le strade per aderire sul campo alla Giornata internazionale dello Sport per lo Sviluppo e la Pace. Tante le società coinvolte e partecipi, provenienti anche dal mondo del professionismo.
La mobilitazione, condita di testimonianze e racconti di casi di discriminazione, ha messo in luce ancora una volta le criticità di un sistema che non educa all’utilizzo consapevole degli strumenti di comunicazione più in voga.
Di casi eclatanti di hate speech ne abbiamo tanti, ma alcuni sicuramente hanno fatto più rumore. Lo sport al femminile risulta essere la vittima d’eccellenza degli odiatori seriali, ne sono ben consapevoli (come accennato qualche riga fa) le atlete dell’Italrugby, costrette a lanciare una campagna di sensibilizzazione che ha portato una grossa rilevanza mediatica anche grazie ai video rilasciati sui canali social. Il messaggio, condiviso dai colleghi dell’Italrugby maschile, è semplice e chiaro: “In un mondo in cui le parole contano, insieme possiamo creare un ambiente positivo e rispettoso. Usa i social responsabilmente”.
La Federazione Italiana Baseball e Softball è scesa in prima linea contro la violenza verbale collaborando con l’Associazione Parole_O_Stili per la redazione del “Manifesto della comunicazione non ostile per lo sport”, progetto di sensibilizzazione capace di coinvolgere atleti, club e professionisti della comunicazione. Passando da un semplice slogan, “Virtuale è reale”, l’obiettivo del Manifesto è quello di fornire delle semplici regole da interiorizzare pian piano per normalizzare una comunicazione priva di parole ostili, appunto.
Qualcuno diceva che “Le parole sono importanti” e niente è più vero di questa affermazione all’apparenza frivola e scontata. Ma di scontato non c’è nulla in quei muri di odio gratuito. Gli Insulti omofobi, xenofobi e razzisti possono essere frutto di un retaggio culturale difficile da estirpare che ha trovato un’area libera su Facebook, Instagram e X, ma è anche vero che queste aree possono essere terreno di confronto e di sensibilizzazione per invertire le tendenze. Se è vero che la discriminazioni prolifera in contesti in cui la qualità dell’informazione è scarsa, ben vengano i video dell’italrugby e il manifesto della comunicazione non ostile. Questi segnali di luce in fondo alla strada sono solo piccoli passi,
sperando in un loro attecchimento prima della cancrena.
Damiano Cancedda