Chirstian Eriksen ha pubblicato sui suoi profili social un selfie in cui rassicura sulle sue condizioni di salute. “Sto bene, viste le circostanze”, scrive. Ora che il pericolo è davvero scampato possiamo riflettere a mente fredda su ciò a cui abbiamo assistito in diretta mondiale.
Eriksen crolla, occhi puntati su Copenhagen
È il 42esimo minuto del primo tempo del match tra Danimarca e Finlandia degli Europei di calcio. Il centrocampista danese crolla letteralmente a terra. Il primo a dare l’allarme è il capitano Simon Kjaer, che oltre a chiamare i soccorsi a gran voce riesce a mettere Eriksen nella posizione corretta e a tirargli fuori la lingua in attesa dell’intervento del personale medico. I gesti di Kjaer fanno riflettere, ora che sappiamo che Eriksen è fuori pericolo, su quanto sia importante agire in fretta in circostanze simili e sull’importanza della formazione sul primo soccorso. Di fatto, Kjaer probabilmente ha salvato la vita al compagno di squadra.
Da quando Eriksen crolla in campo a quando viene portato fuori dal terreno di gioco passano minuti interminabili. Le manovre di rianimazione durano 11 minuti, il mondo intero ha gli occhi puntati su ciò che sta accadendo a Copenhagen.
Sui social le immagini che circolano ossessivamente in loop sono quelle in cui Eriksen improvvisamente si accascia. La “spettacolarizzazione della tragedia”, direbbe qualcuno, senza pensare che quella tragedia – per fortuna scampata – ci consegna una pagina dimenticata del calcio, in cui la ripartenza dopo la pandemia si associa ad una riscoperta di valori, passioni e sentimenti puliti, forse troppo a lungo sopiti.
L’Uefa sospende la partita e, prima ancora che pronunci altre parole ufficiali sulle condizioni del giocatore, proprio dai social arriva l’immagine di un Eriksen apparentemente cosciente mentre viene trasportato via. Ora sappiamo che si tratta della prima immagine del lieto fine. Più che “spettacolarizzazione” è “rassicurazione”, è un abbraccio virtuale, un sospiro di sollievo corale.
Simon Kjaer: capitano è colui che sa cedere alle emozioni
Ma c’è un’altra immagine, che rimarrà nella storia in tutta la sua potenza mediatica: il cerchio di volti, di lacrime e di mani intrecciate con il quale i compagni di squadra hanno circondato Eriksen durante le fasi di rianimazione in campo. Un cerchio di fratellanza, di sostegno, di amore, di protezione. Una barriera difensiva contro l’invadenza del mondo esterno e dei suoi occhi indiscreti.
E poi c’è lui, Simon Kjaer. Un essere umano che ci consegna un identikit del calciatore che abbiamo dimenticato o al quale non siamo più abituati: l’atleta che si lascia andare alle emozioni, che tiene i nervi saldi nelle fasi più critiche ma poi crolla e lascia che sia la preoccupazione a prevalere. Come tutti gli esseri umani, Kjaer cede e si fa sostituire. “Troppo scosso” dirà poi il ct KasperHjulmand in conferenza stampa.
Scosso… o forse semplicemente umano. Quell’umanità sembra invece mancare in chi decide di far riprendere la partita dopo una sospensione soltanto momentanea, seguita al malore di Eriksen.
Le emozioni del leader
Perché continuare a giocare a tutti i costi? Evidentemente, perché i giocatori, invece che uomini, vengono considerati macchine impostate per produrre spettacolo e risultati, costi quel che costi.
Il capitano Kjaer salva l’amico a terra, organizza un cerchio difensivo attorno a lui, consola la moglie disperata e i compagni di squadra, torna in campo ma poi cede. I suoi piedi hanno eseguito gli ordini e sono tornati sul terreno di gioco; la testa e il cuore no. Non c’è differenza tra campo e vita, se un amico è in pericolo le emozioni non si possono mettere a tacere, non si può separare il corpo dalla mente, non si può essere atleti senza essere persone.
Abbiamo visto un giocatore crollare all’improvviso, abbiamo visto espressioni turbate, lacrime, abbiamo percepito la tensione a migliaia di chilometri di distanza.
E abbiamo visto i due volti del calcio: quello degli eroi veri e quello freddo e cinico di chi impone di concentrarsi sulla gara e costringe a proseguire, come se nulla fosse accaduto.
Come se non fosse prevedibile che le condizioni emotive dei giocatori, al ritorno in campo, sarebbero state comprensibilmente alterate.
Imporre la ripresa della partita non può essere considerato normale.
Ci sono momenti in cui deve esistere un’unica scelta: fermarsi.
E fermarsi è la scelta dei più forti, non dei più deboli.
In campo – così come accade nella vita di tutti i giorni – quando prendiamo una decisione dobbiamo considerare tutte le variabili in gioco. Molte volte quella che maggiormente ci influenza è la stessa che a Copenhagen è stata messa volutamente da parte: le emozioni che quella decisione provoca. Un essere umano privo di emozioni sarebbe un essere umano a metà. Un leader è tale anche per la sua capacità di riconoscere e trasformare le emozioni in grandi imprese.
Onore al capitano Kjaer, che al 63esimo minuto alza bandiera bianca.
Anna Titta Gallo