Errori, ansie, debolezze, strascichi di esperienze negative; cedimenti fisici e psicologici, inciampi, paure; disagio, preoccupazione; timore di non essere abbastanza; momenti negativi, tristezza, depressione. Ma anche lacrime di gioia, commozione, felicità estrema. Tutto tipico dell’essere umano. Eppure agli atleti è stato richiesto per decenni – più o meno implicitamente – di assomigliare il più possibile a supereroi impassibili e invincibili, robot, macchine da gara programmate per vincere.
I Giochi Olimpici ci stanno consegnando una diversa narrazione dell’errore, molto più complessa e simbolica di un tempo, che ha a che fare più con l’anima che con i muscoli.
La normalizzazione dell’errore
Nel 2021 l’atleta che davvero riesce ad emozionarci è un mix di bravura ed emozioni: un eroe umano che non nasconde dolore, rabbia, ingiustizia e frustrazione. Anzi, è un eroe che si racconta al mondo, che esorcizza le paure e i malesseri proiettandoli all’esterno e li tramuta in ispirazione per altri atleti.
È arrivato il momento di uscire allo scoperto e abbattere i tabù, persino quelli più resistenti di cui finora si faticava a parlare in pubblico per paura dell’emarginazione.
Non a caso a Tokyo2020 si parla apertamente di depressione, ansia, omosessualità, body shaming, razzismo. La quotidianità, la normalità e i temi di quest’epoca sono entrati nei villaggi olimpici insieme ai campioni più invincibili del mondo. Finalmente.
“Ispirare” significa contagiare con i propri valori e il proprio comportamento e mostrarsi per ciò che si è. Si vince, si perde, si sbaglia; un giorno si compie un’impresa incredibile e il giorno dopo si crolla. Normalizziamo l’errore, è la vita. E’ l’atteggiamento di fronte all’errore che rende l’atleta un esempio.
“It’s ok to not be ok”
“E’ ok non sentirsi ok”. Un messaggio forte che rimbalza fortissimo da qualche anno sui social sotto forma di hashtag. Abbiamo tutti il diritto di non sorridere, di sentirci giù, di sbagliare. L’importante è trovare strumenti e strategie per rialzarsi.
L’ultima tedofora, chiamata ad accendere il braciere olimpico, è stata la tennista Naomi Osaka, uscita delusissima dai Giochi. Lei, una delle più attese.
Il Time le aveva dedicato una cover riprendendo proprio quel messaggio e il concetto che la Osaka da tempo ripete: proteggere gli atleti più fragili, che spesso alle battaglie che combattono dietro le quinte devono sommare la pressione mediatica, le domande impertinenti, le recriminazioni. Nel suo caso una delle battaglie è stata la depressione, di cui ha parlato apertamente. Il primo passo per uscirne.
Come lei, molti sportivi – da Phelps alla Williams – ammettono di soffrire di ansia, attacchi di panico, fino alla stessa depressione. E quando la pressione diventa insopportabile è facile sbagliare, in un contesto che poco tollera l’imperfezione.
Eppure nella mente di questi campioni non capita nulla di diverso da ciò che accade a tanti individui in tutto il mondo e che riteniamo degno di comprensione.
Naomi Osaka si è ritirata dal Roland Garros per problemi di salute mentale, forse rivelati dopo altre pressioni a fornire spiegazioni. A Tokyo2020 ha rappresentato un Giappone di cui non parla la lingua. Proprio lei, cresciuta negli Stati Uniti e nipponica solo per via delle origini della madre. Avrebbe dovuto rappresentare la novità, l’inclusione, la diversità, la svolta. Il Giappone ora fatica ad accettare che la sua bandiera non abbia sventolato e la Osaka lo sa benissimo. Sapeva sin dall’inizio che avrebbe comunque portato un altro peso sulle spalle. Ci ha provato.
A noi resta un insegnamento: così come i muscoli anche la mente può essere allenata e recuperata. La vittoria va e viene ma può essere per tutti, fragili compresi.
Anna Tita Gallo