Il Giorno della Memoria è fatto anche per evitare che storie che vale la pena di conoscere e di ricordare rimangano nell’oblio. Storie di vita reale come quella di Árpád Weisz, leggendario allenatore ebreo ungherese che, tra gli anni ’20 e gli anni ’30, ha scritto pagine importanti del calcio italiano. Una figura per troppo tempo dimenticata sino a quando, nel 2007, il giornalista Matteo Marani l’ha riportata alla luce con il libro Dallo Scudetto ad Auschwitz. Un insegnamento su quanto possa essere crudele il male. Anche nei confronti di chi ha vinto tutto ma rimane senza niente solo perché diverso.
Árpád Weisz nasce a Solt, in Ungheria, nel 1896. Come detto, è di origina ebraica. Ha una breve carriera da calciatore, che lo porta in nazionale e lo fa arrivare in Italia. Prima l’Alessandria, poi l’Inter. A trent’anni inizia ad allenare. Sempre da Alessandria e Inter. L’esperienza è folgorante. Nel 1929-30 vince il campionato alla guida della società meneghina – sotto il fascismo ribattezzata Ambrosiana-Inter – di cui è al timone da quattro anni. È il primo torneo a girone unico e Weisz, a 34 anni, diventa l’allenatore più giovane a vincere lo scudetto. Un record ancora imbattuto. Resta all’Inter sino alla stagione successiva e in quel periodo scopre anche Giuseppe Meazza. Dopo un anno a Bari, il ritorno all’Inter e una parentesi a Novara, nel ’35 approda a Bologna, voluto fortemente dal presidentissimo Renato Dall’Ara. È lì che, a quarant’anni, Árpád Weisz entra nella leggenda del calcio italiano. In rossoblù il mister ungherese vince tutto. Due scudetti di fila (1936-37 e 1937-38) e, nel 1937, il suggello internazionale con il trionfo al torneo dell’esposizione universale di Parigi con la vittoria per 4-1 contro il Chelsea. Il Bologna di quegli anni è «lo squadrone che tremare il mondo fa».
Una storia meravigliosa, che poi però ha una brusca e drammatica interruzione. Nel 1938, infatti, l’Italia conosce la vergogna delle leggi razziali, che costringono il mister e la famiglia a lasciare il paese e il lavoro. Una fuga rapida, che lo porta prima a Parigi e poi a Dordrecht, nei Paesi Bassi. Lì, nonostante tutto, continua ad allenare e a giocarsela alla pari con giganti come Ajax, Feyenoord e PSV. Poi però arrivano la guerra e il dramma dell’olocausto. L’occupazione tedesca non lascia scampo al mister e alla sua famiglia, che vengono catturati dai nazisti e portati nel campo di transito Westerbork dove, nell’ottobre del ’42, i Weisz vengono separati. Per moglie e figli non c’è scampo: poche settimane dopo sono portati ad Auschwitz e gasati a Birkenau. Il calvario di Árpád, invece, proseguirà altri quindici mesi fino a quando, il 31 gennaio 1944, non sarà anche egli ucciso ad Auschwitz.
Dell’allenatore, nel frattempo, si è persa ogni traccia. Il suo ricordo resta vivo soltanto nella testa di alcuni tifosi rossoblù e neroazzurri. Questo sino a quando Matteo Marani non ricostruisce la sua storia. Nel 2009 la prima commemorazione ufficiale del Comune di Bologna, con l’apposizione di una targa in onore di Árpád Weisz sotto la torre di Maratona dello stadio Dall’Ara. Nel 2018 gli viene quindi dedicata la curva San Luca. Pochi giorni fa, in occasione delle iniziative per il Giorno della Memoria, il ricordo del Bologna e della città con una commemorazione cui hanno preso parte il patron falsineo Joey Saputo, l’ad Claudio Fenucci, il presidente della comunità ebraica locale Daniele De Paz e l’assessore allo sport Matteo Lepore.
A 75 anni dalla sua morte, ad Árpád Weisz sono finalmente riconosciuti i grandi successi. La vita, persa solo perché diverso, non gli sarà invece più restituita. Un insegnamento da ricordare ogni giorno quando si calca un campo di gioco.
Giulio Monga