Quando nel 1995 Gabriel Burstein sbarca in Israele per salutare suo padre, la storia sembra voler raddrizzare il proprio tragitto. Gli accordi di Oslo stavano avviando i percorsi di pace tra Palestina e Israele per riconoscersi, finalmente, come legittimi interlocutori. La fine delle “Intifada”, il progressivo ritiro delle truppe Israeliane, le strette di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sotto gli occhi di Bill Clinton annunciano un apparente disgelo, tanto da convincere il giovane Gabriel a rimanere lì. Un paese accogliente, moderno e sempre più sicuro gli avrebbe consentito di fare il calciatore, sogno di una vita. Ruolo, portiere. Dall’Argentina con un sogno nel cuore. Arriva dalle giovanili del River Plate ma solo i guantoni del Maccabi Herzliya gli permettono di sentirsi un professionista.
Nel 1999 le cose cambiano. Un infortunio lo costringe al ritiro a soli 23 anni con l’amaro in bocca. E anche il mondo attorno a lui cambia. I risentimenti tra Palestina e Israele continuano. Gli accordi di Oslo funzionano a metà e non sanano le questioni lasciate in sospeso, nemmeno con l’insediamento del primo ministro Netanyahu, avvenuto nel 1996. Gabriel Burstein però non molla. Comincia la sua seconda vita nel mondo del calcio. Diventa prima allenatore nelle giovanili e poi scopre il calcio femminile. In poco tempo si prende la scena col Maccabi Holon, vincendo sei campionati e sette coppe nazionali tra il 2003 e il 2010. Un trionfo calcistico che prosegue col Ramat HaSharon per diversi anni e che culmina, nel 2019, con la chiamata della vita: la nazionale di calcio femminile Israeliana. Diventa CT ed è lì che la sua storia supera le barriere. Le ragazze musulmane si integrano perfettamente con le compagne cristiane ed ebree. Non c’è rabbia, solo rispetto reciproco. Se fuori pulsa la tensione, nello spogliatoio si respira aria di possibilità. Possibilità di convivenza. Segnali di una pace che tra la gente è latente tanto quanto il conflitto lo è per i protagonisti dell’orrore.
Oggi il calcio è fermo in Israele e in quei territori, dopo l’attacco di Hamas, nulla è più come prima e come si spera. Terrorismo, orrore e distruzione. Ragioni e soluzioni che non si districano mai.
In una recente intervista a La Nacion Burstein ha confessato di aver paura: “Ho girato Israele per il calcio. Sono stato in città al confine con la Palestina. Ho giocato in città a maggioranza musulmana. Non ho mai avuto paura. L’idea che questo sia un luogo sicuro non esiste più”. Amici cari e concittadini, alcuni inseriti nel mondo del calcio, l’hanno lasciato solo e triste, uccisi barbaramente dal fuoco di Hamas. E il fuoco continua a camminare, col rischio di un allargamento del conflitto che si fa sempre più inquietante.
Gabriel Burstein sa che in fondo una speranza di convivenza esiste. L’ha vista negli occhi delle sue ragazze e ha provato ad insegnarla agli altri. Quello che non sa è che troppi occhi vogliono restare chiusi. Ma lui continua così: “La pace è possibile. Nella stessa terra”.
Damiano Cancedda
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