C’è qualcosa di straordinario nell’intervista che Papa Francesco ha rilasciato alla Gazzetta dello Sport, sotto diversi profili. C’è la prima volta di un pontefice che parla esclusivamente di sport in una intervista. C’è rivelata la possibilità che possa nascere una enciclica sullo sport. Ma c’è soprattutto la capacità di essere vicino alla quotidianità della gente. Francesco parla delle sue emozioni da ragazzino andando allo stadio o giocando da portiere (perché era di “pata dura”, gamba dura) con una “pelota de trapo”, una palla fatta di stracci. Il Papa non esita a definire Maradona “un poeta che ha regalato gioia a milioni di persone” e a indicare Bartali come “costruttore di bene, che ha lasciato il mondo meglio di come lo ha trovato”.
Questa capacità di Bergoglio di parlare di sport in maniera diretta, competente, popolare, rende ancora più credibile la sua proposta per uno sport di valori, approfondita nella lunga e articolata intervista rilasciata al vice direttore della Gazzetta dello Sport, Pier Bergonzi, coadiuvato in questo percorso da Don Marco Pozza, stretto collaboratore del Pontefice.
Gli operatori di sport non possono perdersi ogni riga dell’intervista, per la profondità dei concetti espressi. Noi qui ci limitiamo a riprenderne alcuni che ci sembrano più forti per la nostra dimensione salesiana.
Olimpiadi e inclusione
“Chiediamo al Signore la grazia di poterci avviare verso un anno di ripartenza di tutto. Penso, ad esempio, al dramma della mancanza di lavoro e della conseguente sempre maggiore disparità tra chi ha e chi ha perso anche quel poco che aveva. Certamente le Olimpiadi, di cui ho sempre apprezzato il desiderio innato di costruire ponti invece che muri, possono rappresentare anche simbolicamente il segno di una partenza nuova e con il cuore nuovo. All’inizio dell’esperienza delle Olimpiadi, infatti, si prevedeva addirittura la tregua dalle guerre nel tempo delle competizioni. Ogni quattro anni, il mondo ha la possibilità di fermarsi per chiedersi come sta, come stanno gli altri, qual è il termometro di tutto. Non per nulla certe gesta olimpiche sono diventate simbolo di una lotta: pensiamo al razzismo, all’esclusione, alla diversità. Celebrare le olimpiadi è una delle forme più alte di ecumenismo umano, di condivisione della fatica per un mondo migliore”.
Fare squadra
“È vero: nessuno si salva da solo. E come credente posso attestare che la fede non è un monologo, bensì un dialogo, una conversazione. Pensiamo ad esempio a Mosè che, sul monte, dice a Dio di salvare anche il popolo, non solo lui (cfr Es 32). Verrebbe da dire, usando una metafora sportiva, che ci potremmo salvare solamente come squadra. Lo sport ha questo di bello: che tutto funziona avendo una squadra come cabina di regia. Gli sport di squadra assomigliano ad un’orchestra: ciascuno dà il meglio di sé per quanto gli compete sotto la sapiente direzione del maestro d’orchestra. O si gioca insieme, oppure si rischia di schiantare. E’ così che piccoli gruppi, capaci però di restare uniti, riescono a battere squadroni incapaci di collaborare assieme. C’è un proverbio d’Africa che dice che se una squadra di formiche si mette d’accordo è capace di spostare un elefante. Non funziona solamente nello sport questo”.
Alleducatori
“In qualche modo allenare è come educare. Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l’atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclasse. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia”.
L’insegnamento di Don Bosco
“La Chiesa ha sempre nutrito grande interesse verso il mondo dello sport. Possiamo dire che nello sport le comunità cristiane hanno individuato una delle grammatiche più comprensibili per parlare ai giovani. Pensiamo a Don Bosco e agli oratori salesiani ma pensiamo a tutte le parrocchie del mondo, anche e soprattutto le più povere, nelle quali c’è sempre un campetto a disposizione per giocare e fare sport. Attraverso la pratica sportiva si incoraggia un giovane a dare il meglio di sé, a porsi un obiettivo da raggiungere, a non scoraggiarsi, a collaborare in un gruppo. È un’occasione bellissima per condividere il piacere della vittoria, l’amarezza di una sconfitta, per mettersi insieme e dare il meglio di sé”.
Chi vince non sa cosa si perde
E poi aggiunge Papa Francesco: “Da certe sconfitte nascono delle bellissime vittorie: perché, individuato lo sbaglio, si accende la sete di riscatto. Mi verrebbe da dire che chi vince non sa che cosa si perde. Non è solo un gioco di parole: chiedetelo ai poveri”.
Dopo il messaggio del Papa “Dare il meglio di sé” che ha accompagnato il documento sullo sport del dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, del giugno 2018, l’intervista alla Gazzetta di Francesco mette lo Sport al centro della vita cristiana, per la capacità di esaltare i valori spirituali e della fede. In un momento così difficile arriva un messaggio forte di speranza, stimolante per chi opera nelle Pgs e nello sport di base più in generale.
Maurizio Nicita