L’atleta può fallire. Ne ha il diritto. Detto questo, ognuno ha il proprio modo di affrontare la sconfitta e di fare autocritica a fine gara. Non c’è scampo. Le motivazioni possono essere arricchite di particolari ma, in buona sostanza, bisogna migliorare. Si cade perché l’avversario è più forte oppure perché si sbaglia. In quest’ultimo caso, bisogna fare i conti soprattutto con se stessi. A questo si somma quel mostro di cui oggi tanto si parla e che ha distrutto la mente di sportivi invincibili: la pressione.
Ma cos’è la pressione? Quando si gareggia ad alti livelli è impossibile non finire sotto le luci dei riflettori, nel mirino di domande scomode, oggetto di pettegolezzi e indagini sulla propria vita privata. Poi ci sono i social, l’ansia di piacere a tutti.
E’ apprezzabile un atleta che decide di condividere non solo i successi sportivi ma anche le proprie opinioni e frammenti di vita privata, che trova il tempo di sposare battaglie sociali, di raccontare la propria storia per spingere altri a non nascondersi e a lottare. Diventa più umano quando si espone. Ma sa bene che facendolo non potrà più sottrarsi al circo mediatico, agli affondi, alle critiche. Alla cattiveria, anche.
Ed ecco che qualcuno cede, fragile ma ugualmente forte.
Si può tagliare corto e dire “non ha retto alla pressione delle Olimpiadi”, senza peraltro affermare il falso. Ma c’è una seconda strada, l’empatia, che aiuta a dare un senso più profondo ai cedimenti, alle lacrime, ai ritiri, agli errori.
Le lacrime dello zingaro
Johann Wilhelm Trollmann, il “pugile zingaro”, tra gli anni Venti e Trenta del Novecento divenne l’idolo degli appassionati. Proveniva da una famiglia di sinti di Hannover, il suo soprannome era “Rukeli”, dal romanì “ruk”, albero, e così era il suo fisico. Il suo stile era innovativo, una danza. Quando vinse il titolo di campione dei pesi mediomassimi di boxe contro il tedesco e ariano Adolf Witt tentarono di annullare l’incontro ma il pubblico lo impedì. Trollmann pianse di gioia. Quelle lacrime furono la sua condanna. In piena epoca nazista un uomo non poteva certo piangere e lasciarsi andare ad emozioni così stupide, figuriamoci uno zingaro. Uno spettacolo indegno, al punto che l’incontro fu riprogrammato, questa volta contro Gustav Eder. A Trollmann fu imposto di non muoversi dal centro del ring. La sua danza doveva finire lì. Si presentò coperto di farina, bianco come i bianchi, e agì per perdere l’incontro. Ma non bastava. Fu mandato ai lavori forzati, si rassegnò alla sterilizzazione, fu costretto a combattere contro i nazisti quando ormai era privo di forze. Contro uno di loro, un ex pugile per giunta, vinse. Fu l’ultima grande impresa. Fu ucciso per vendetta a seguito di quell’umiliazione rifilata ad un membro di una razza superiore. Cosa sono allora le lacrime? Quelle di Trollmann sono lacrime di eroe, le lacrime della forza che tutti noi vorremmo avere.
Simone Biles: imparare a volersi bene
A Tokyo2020 come un fulmine a ciel sereno arriva la notizia del ritiro di Simone Biles dalla finale a squadre dopo errori per lei clamorosi. Vedere uscire dalla pedana proprio lei, la più temuta, la più brava, la divina, ha subito lasciato intendere che dietro ci fosse un problema più serio. La stessa Biles è uscita allo scoperto svelando che la colpa non è dei muscoli ma dei “demoni” nella sua testa. Il problema sono i twisties, il senso di vuoto.
La perdita di consapevolezza della propria presenza per una ginnasta significa ritrovarsi a mezz’aria e rischiare di bloccarsi senza sapere dove si trova. Una sensazione spiacevole e pericolosissima, dunque.
Mentre il mondo si concentra sul “crollo dell’atleta” emerge Simone, una 24enne cresciuta in fretta che negli ultimi anni ha portato sulle spalle tutto il peso di vicende controverse. I nodi sono arrivati al pettine. Le cicatrici non svaniscono in fretta e le migliaia di spettatori in attesa di una sua performance straordinaria non aiutano. Vincere altre medaglie significa alzare ancora l’asticella, generare altre aspettative. Peso su peso.
Per comprendere il suo stato d’animo dobbiamo scomodare la cronaca e lo scandalo degli abusi sessuali perpetrati da Larry Nassar, l’osteopata della Nazionale Usa di ginnastica dal 1996 al 2017. Nassar dovrà affrontare la condanna a scontare 175 anni di carcere, la Biles e le oltre 150 ginnaste che subirono molestie nell’infanzia e nell’adolescenza stanno trovando il loro modo di scacciare o imparare a convivere con i demoni e con la delusione di non essere state protette. Simone Biles probabilmente è arrivata ai Giochi di Tokyo sapendo che sarebbe stato l’ultimo passo prima di un periodo da dedicare al suo recupero, mentale prima di tutto.
Ma anche cedere davanti a tutti, assecondare le emozioni, lasciarle uscire, raccontarle, mostrarle al mondo intero è una strategia per superare ciò che ci rende fragili. Fragili, non meno forti.
La priorità per l’atleta non può essere lo spettacolo; è salvarsi, evitare il pericolo.
La Biles è tornata una settimana dopo, a sorpresa, per portarsi a casa un bronzo alla trave che vale almeno quanto il coraggio di non essersi fidata della sua mente. Questo è empowerment: maturità, autostima, fiducia in se stessi. Oltre ad una medaglia storica, Simone ha vinto il supporto di moltissimi atleti, uomini e donne, che l’hanno supportata facendole scudo con le loro storie e i loro demoni così simili. Simone Arianne Biles non è soltanto acrobazie ai limiti dell’impossibile, è la forza di mettersi al primo posto, di volersi bene senza se e senza ma, di ascoltare e seguire i segnali del proprio corpo e della propria mente. Prendersi cura di sé oggi è il primo passo per stupire se stessa e il mondo domani. Incapace di reggere la pressione? Sì, forse. Ed è normale.
Anna Tita Gallo