Un fenomeno che dilaga e che attraverso le manifestazioni sportive trova un baluardo di espressione inaspettato. Tra gli spalti, in mezzo alla folla, tra l’animosità di un pubblico che spinge e contrasta beniamini e nemici, vincitori e vinti, il razzismo trova terreno fertile per liberare la sua anima. Laddove i valori dello sport dovrebbero esprimere il massimo della propria valenza sociale, perché continuano ad accadere casi di discriminazione razziale? Ci chiediamo sempre se esiste una soluzione radicale in grado di estirpare il male alla radice, ma allo stesso tempo vediamo le istituzioni pretendere la tolleranza del fenomeno lasciando stadi e palazzetti zone franche, in modo tale da ridurre gli episodi di discriminazione a fatti inerenti al contesto, limitando così la responsabilità dello Stato su una sua possibile ed implicita connivenza, se così si può definire.
Ma quando i buu razzisti e le discriminazioni passano dalle gradinate al campo? Cosa succede? Di chi è la responsabilità? Ed è proprio qui che si compie la più grande forma di ingiustizia: la sola squalifica del giocatore. Lo smarcamento più totale delle istituzioni, l’esempio lampante della visione del campo da gioco come zona franca, in cui valgono le leggi sportive e mai quelle vere. Sì, partirà la gogna social, ma presto verrà anche l’assoluzione, frutto della modalità tifoso, il famoso episodio da campo causato dalla foga agonistica.
Gli ultimi casi di discriminazione arrivano dal mondo del calcio e sono piuttosto singolari: Vinicius, giocatore del Real Madrid, bersaglio fisso delle tifoserie avversarie, piange ai microfoni della Tv spagnola e minaccia il ritiro dai campi. Un’esasperazione figlia di un talento che non riesce più ad esprimersi con serenità sui campi da calcio. Ed è proprio lui stesso a dire: “Vinceremo solo quando i razzisti lasceranno gli stadi per andare direttamente in carcere, il posto in cui meritano di stare”, una richiesta esplicita e diretta allo Stato e non ai vertici delle istituzioni sportive.
In Italia il caso Juan Jesus-Acerbi prende i contorni del surreale. Acerbi, difensore dell’Inter, a detta del difensore del Napoli si fa scappare una frase discriminatoria che le migliaia di telecamere in campo non riescono ad intercettare. Juan Jesus nel dopogara informa i media del fatto e assolve in buona fede l’avversario che, non appena constatata l’assenza di prove, respinge comunque le accuse. La giustizia sportiva non può intervenire e
il caso si sgonfia, Juan Jesus si sente preso in giro dall’avversario e si rammarica di aver sminuito il fatto in un semplice episodio da campo. Il labiale assente della discordia sarà l’emblema di un caso che senza prove visive pare non esistere. Il paradosso di un razzismo che se non è sugli spalti, udito e collettivo, allora è impossibile.
Nel corso della storia tantissime volte abbiamo visto atleti combattere contro il razzismo, ma quante volte le loro battaglie hanno inciso sul serio? Se mancano istituzioni che già dall’alto dettano una linea, cosa possono fare le parole di un uomo?
Quando negli anni 30 l’atleta afroamericano Jesse Owens vinse quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino mandando un segnale non solo a Hitler ma anche a tutta l’America, colpevole di praticare la segregazione razziale, non si rese conto di aver messo un tassello importante. Vero, la guerra arrivò comunque e ovunque nel mentre, e fu il culmine di un degrado etico e politico affacciato sul punto di non ritorno dell’olocausto e della bomba atomica, ma la vittoria di Owens fu topica in quel momento. Piantò un seme che nel tempo portò altri atleti di colore a rendersi protagonisti di una lotta sacrosanta: la lotta al razzismo, all’ignoranza e al pregiudizio. Finita la guerra, l’Occidente conobbe la speranza della rinascita e dell’uguaglianza, rifacendosi anche agli esempi di Owens, simbolo di integrazione e prospettiva. Iniziò un processo di consapevolezza. Nel 1964 il governò americano emanò il famoso Civil Rights Act, che non sconfisse il razzismo ma lo rese un reato. Gli esempi dell’alto, frutto anche della consapevolezza di aver compiuto errori enormi nel passato.
Tornando al presente In Italia soprattutto sembra esserci una sottovalutazione del problema del razzismo tale da ritenere certi segnali visti in contesti sportivi come sporadici e innocui. Ma è questa la verità? Non esiste l’innocenza, esiste l’ignoranza. E l’ignoranza per essere combattuta necessita di esempi e di prese di posizione concrete, non di slogan, soprattutto in momenti come questi, conditi da guerre insensate dove anche il razzismo gioca una parte importante. Se sugli spalti ci fossero ragazzi educati allo sport e al rispetto allora sì che il razzismo subirebbe davvero un duro colpo. L’educazione è un concetto chiave in grado di abbattere i muri e di far crescere i livelli di tolleranza e comprensione reciproca. Lo sport, come sempre, sarà cruciale per il rinnovo di una speranza.
Damiano Cancedda