Per i suoi 80 anni ha ricevuto auguri da ogni angolo del mondo. Persino dalla Cina. Perché Dino Zoff è un mito e come tale ha attraversato epoche diverse ma è sempre rimasto popolare anche fra i più giovani che non troveranno di sicuro i suoi account sui social, ma che attraverso quelli possono ancora rivivere le sue gesta in campo. Una specie di monumento dello sport e dell’etica. Un uomo intelligente e curioso, che è molto attento alle nuove generazioni, anche perché nonno, e in questa chiacchierata ci fa scoprire la sua educazione “eco” come diremmo oggi, nel rispetto e nella condivisione piena della natura, lo abbia forgiato come uomo. Una sana cultura contadina, come ha imparato in campagna a Mariano del Friuli, dove è nato.
Il suo primo approccio con lo sport?
“Nella forma di gioco, come dovrebbe essere anche oggi. Per ogni stagione c’erano giochi diversi. Perché quando le giornate erano lunghe, fra primavera ed estate, si correva nel bosco a fare gli indiani o tante altre cose. In una sintonia piena con la natura. Oggi purtroppo il rapporto diretto con la campagna non c’è nei bambini e dunque si fa più fatica a capire cosa regola la nostra vita”.
Si stava meglio quando si stava peggio?
“No, non dico questo. Anzi capisco che oggi i ragazzi non riescano nemmeno a concepire come sia stata la mia adolescenza. Io che il mio primo Mondiale di calcio in tv lo vidi a 12 anni seduto in un angolo del bar, nel 1954, ovviamente in bianco e nero. Da ragazzino non avevo nemmeno le figurine per giocare. Ed ero felice così. Cerco di sforzarmi a capirli e li vedo molto fragili. Sembrano padroni del mondo con i loro strumenti tecnologici, invece temo che conoscano poco la vita reale. A volte un sano rimprovero aiuta a crescere, senza cercare scuse o scappatoie. Invece spesso i genitori tendono a giustificare, a proteggerli pure in eccesso. Così credo facciano fatica a crescere”.
Lo sport aiuta?
“Certo. Ma l’organizzazione della nostra società pone troppe barriere. La dimensione ludica si è persa. Quella del cortile o della piazza vicino casa. In piena libertà. Oggi lo sport spesso, anche per i più piccoli, si fa a pagamento e questo ritengo sia sbagliato. L’accesso deve essere per tutti. Poi crescendo si sceglie la disciplina e magari inizia un momento diverso. Ma la base deve essere libera e accessibile per tutti. Ne va della nostra salute”.
Cosa ripete come insegnamento ai suoi nipoti?
“Non ripeto mai. Le cose si dicono una volta, l’insegnamento poi sta nella testimonianza che dai, nella credibilità. I ragazzi devono capirlo. A casa mia l’educazione era come se si respirasse nell’aria. Certe cose intuivi da te che non si potevano fare. Il massimo della trasgressione per me, da piccolo, era rubare qualche frutto maturo da un campo vicino. Ma se poi se ne accorgeva papà Mario…”.
Era particolarmente rigoroso?
“Direi giusto. Mi faceva capire che quanto avevo preso era il frutto del lavoro di un altro contadino. Diventava naturale restituirlo, senza bisogno di urlare o di spiegare altro. I suoi insegnamenti sono scolpiti in me”.
Come quando le chiese se fosse farmacista…
Ride di gusto. “Già, ero all’inizio della carriera, e papà aveva sentito una mia dichiarazione, ero rimasto ‘sorpreso da un tiro’. Mi chiese subito: “Mica fai il farmacista? Se stai in porta è per parare!”. Semplice. Diretto. Giusto”.
Quando il piccolo Dino cominciava a farsi conoscere nel calcio ebbe una grande delusione.
“La mancata convocazione con la Nazionale Juniores per l’Europeo di categoria nel 1961, in Portogallo. Avevo 19 anni, giocavo nell’Udinese, e la Gazzetta dello Sport aveva scritto che sarei stato chiamato. Tutto sembrava sicuro perché dalla federazione ero stato contattato per i documenti. Per la prima volta feci il passaporto, e allora non era semplice, procedure lunghe e complesse. Camminavo fiero per Mariano del Friuli, la gente cominciava a riconoscermi. Poi ecco le convocazioni e il mio nome non c’era. Per la vergogna non uscivo in paese. Una lezione che mi fece crescere, facendomi capire che dovevo dare ancora di più senza sognare troppo. E restare legato alla realtà. Da solo non vai da nessuna parte”.
L’insegnamento più importante che le è rimasto con lo sport.
“Sono tanti i valori che trasmette, perché deve essere educativo, lo sport. Col rispetto delle regole, dell’avversario. L’importanza di fare squadra, di aiutarsi: la solidarietà. Ma direi che c’è una cosa che mi ha forgiato: stare in porta mi ha tolto la paura. Quella paura di non aver coraggio, nello sport come nella vita. Ecco, spero che i giovani possano maturare questo: superare gli ostacoli senza aver paura”.
Quando 7 anni fa si ritrovò isolato in una clinica, con le gambe che non rispondevano, cosa le passava per la testa?
“Vi potrà sembrare strano, ma ho pensato alle mie origini contadine. Perché quello sono io, anche se vivo a Roma da oltre trent’anni. E quel rispetto della natura di cui abbiamo parlato per me è sacro, anche nei momenti più difficili. Pensavo potesse esser giunto il momento. Così come quando a casa da ragazzino perdevamo una vacca o un altro animale importante. Il corso della natura non lo fermi e devi accettarlo. Ero sereno. Le paure me le ha fatte superare lo sport”.
Maurizio Nicita